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Francesco Sini (Università di Sassari, Italia) Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso
romano: Pax deorum, tempo degli dèi (dies festi, feriae), sacrifici Sommario: 1. Premessa. – 2. Pax Deorum e religio. – 3. Tempo degli Dèi (festi dies, feriae). – 4. Sacrifici. A) Il sacrificio nella ‘religione’ pontificale: sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio. – 5. B) Vittime sacrificali tra teologia e diritto. – 6. Sacrifici umani. 1. Premessa
Questo scritto[1], più che sulla nozione di uomo, verterà
su alcuni aspetti dei rapporti tra uomini
e divinità in Roma antica. Tratterò in
particolare della pax deorum, del tempo degli Dèi e dei sacrifici. La sapientia [?sapienza?] teologica e giuridica dei sacerdoti
romani, mediante la definizione del ne-fas, rivolgeva le sue prime e maggiori cautele
proprio alla regolamentazione dei rapporti
tra uomini e Dèi; con lo scopo precipuo
di preservare la pax deorum [?pace degli Dèi?] che riposava sulla perfetta
conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla;
degli atti che mai dovevano essere compiuti;
delle parole che mai dovevano essere pronunciate[2]. Nell'antitesi fas/nefas[3], fondata in particolar modo sul sentimento
che spazio e tempo appartenessero agli Dèi,
si manifestava compiutamente la peculiarità
dei rapporti tra uomini e divinità nel sistema
giuridico-religioso romano: in un sistema,
cioè, in cui la distinzione tra il "divino"
e l' "umano" rappresentava – per
citare le parole di Riccardo Orestano –
?la più antica concezione romana del mondo,
rimasta costante in tutta la tradizione,
secondo la quale la totalità degli esseri
ragionevoli si divideva in due gruppi, gli
Dei e gli uomini. Da essa scaturiva la suprema
distinzione di tutti i rapporti e delle pertinenze
in "divina" e "humana"?[4]. Va sottolineato, che su tale concezione del
mondo, da cui risultano evidenti la cautela
definitoria della scienza sacerdotale e la
tensione universalistica della teologia pontificale[5], appaiano fondate sia la definizione ulpianea
di iurisprudentia [?giurisprudenza?] accolta nei Digesta dell'Imperatore Giustiniano[6], sia la summa divisio rerum [?somma divisione delle cose?] della giurisprudenza
romana[7]. 2. Pax deorum e religio
Nelle elaborazioni teologiche e giuridiche
dei sacerdoti romani, tutte le manifestazioni
significative della vita e della storia del Popolo romano sono rappresentate
in rapporto di imprescindibile causalità
con la religio[8]. Teologia e ius divinum [?diritto divino?] mostravano che la volontà
degli Dèi aveva concorso alla fondazione
dell’Urbs Roma[9]; ne aveva sostenuto la prodigiosa “crescita”
del numero dei cittadini (civitas augescens, per usare la felice espressione del giurista
Pomponio, conservata dai compilatori dei
Digesti di Giustiniano[10]); infine, presiedeva all’incomparabile
fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine[11]. I sacerdoti romani avevano postulato, fin
dalle prime attestazioni della memoria storica
e documentaria delle loro attività, un legame
indissolubile tra la vita del Popolo romano e la sua religio; parola da intendere con Cicerone nel senso
di culto degli Dèi: religione, id est cultu deorum [?nella religione, sarebbe a dire nel culto
degli Dèi?][12]. Riti e culti della religione politeista
romana furono sempre finalizzati al conseguimento
e alla conservazione della pax deorum (?pace degli Dèi?, ma da intendere come
?pace con gli Dèi?)[13]. Per la vita del Popolo romano, si riteneva
indispensabile il permanere di una situazione
di amicizia nei rapporti uomini e Dèi, considerati
anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso
romano[14]; certo la più importante, in ragione dell’intrinseca
potenza che si riconosceva alle divinità. Dagli Dèi, immensamente potenti rispetto
agli uomini, i Romani si aspettavano di ricevere
pace e perdono[15]; senza tuttavia ignorare che le loro colpe
potevano essere punite da Iuppiter con gravissimi mali. Emerge da un tale contesto
teologico la nozione di pax deorum, che potrebbe essere addirittura ?all'origine
del concetto romano di pax?, secondo una suggestiva ipotesi avanzata
dall’insigne studiosa italiana Marta Sordi[16]. Da notare che l’espressione pax deorum è attestata ancora nella sua forma arcaica,
pax divom o deum, da Plauto[17], Lucrezio[18], Virgilio[19] e Tito Livio[20]. Dal punto di vista umano (cioè dello ius sacrum ?diritto sacro?), il legalismo religioso[21] dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come una somma di atti e di comportamenti,
ai quali collettività e individui dovevano
necessariamente attenersi per poter conservare
il favore degli Dèi. Si spiega in tal modo
anche l'attenzione precisa e minuziosa dell'annalistica
romana, erede diretta dell'attività "storiografica"
del collegio dei pontefici[22], nel documentare fatti e avvenimenti suscettibili
di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la vita comunitaria,
i riti e le cerimonie posti in essere per
espiare. In questa prospettiva, può ben comprendersi
perché la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero
rituale[23] e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento
basilare del sistema giuridico-religioso.
Oggetto, quindi, dello ius del Popolo romano (ius publicum), non a caso tripartito secondo il giurista
Ulpiano in sacra, sacerdotes, magistratus[24]: ?Una suddivisione – come ha scritto Pierangelo
Catalano – propria della giurisprudenza
repubblicana, tracciata in spontanea adesione
ai documenti sacerdotali e magistratuali?[25]. Credo di aver dimostrato in un mio libro,
intitolato Documenti sacerdotali di Roma antica, che la tripartizione ulpianea (e ciceroniana[26]) dello ius publicum affonda le sue radici in elaborazioni sacerdotali
di età precedente al pareggiamento tra patrizi
e plebei, o di età appena successiva, e
riflette una gerarchizzazione delle parti
dello ius publicum sostanzialmente antiplebea[27]. Il conservatorismo rituale e il carattere
prevalentemente sacerdotale della giurisprudenza
medio-repubblicana hanno consentito all'antica
partizione dello ius publicum di affermarsi nella sistematica giurisprudenziale
del III e II secolo a.C.[28], fino ad essere poi canonizzata in funzione
politica nel I secolo da Cicerone. 3. Tempo degli Dèi (festi dies, feriae)
Nelle pratiche cultuali dell’antica religione
romana, finalizzate sempre alla conservazione
della pax deorum, risulta invero assai evidente la centralità del tempo (o più concretamente
dei giorni e delle stagioni)[29]. Uno dei doveri religiosi osservato con più
scrupolo dal Popolo romano era il rispetto
del tempo degli Dèi: i dies festi o feriae; per la teologia (e per il diritto) dei
sacerdoti, da tale scrupolosa osservanza
dipendeva massimamente l'esistenza di buoni
rapporti tra uomini e Dèi. Come apprendiamo da Macrobio, i dies festi erano dedicati agli Dèi per l'intero arco
della giornata (Festi dis dicati sunt): Macrobius, Saturnalia 1.16.2-3: Numa ut in menses annum, ita in dies mensem
quemque distribuit, diesque omnes aut festos
aut profestos aut intercisos vocavit. Festi
dis dicati sunt, profesti hominibus ob administrandum
rem privatam publicamque concessi, intercisi
deorum hominumque communes sunt. Festis insunt
sacrificia epulae ludi feriae [Macrobio, Saturnali 1.16.2-3: ?Numa come divise l’anno in mesi,
così divise pure il mese in giorni, e tutti
i giorni chiamò o festivi o feriali o interrotti.
I giorni festivi sono dedicati agli Dèi,
quelli feriali sono lasciati agli uomini
per gli affari privati e pubblici, quelli
interrotti sono in comune agli Dèi e agli
uomini. Nei giorni festivi si fanno sacrifici,
banchetti, giochi e feste pubbliche?]. Si trattava di giorni in cui i cittadini
romani dovevano praticare le devozioni verso
le divinità e celebrare i sacrifici in loro
onore; giorni sottratti alle altre attività
umane, per essere consacrati esclusivamente
al culto degli Dèi. Senza dubbio, questo
carattere obbligatorio del rispetto delle
feriae doveva avere anche una fortissima valenza
giuridica. Ne è prova il linguaggio tecnico-giuridico
utilizzato da Servio Danielino nel commento
al verso 268 del primo libro delle Georgiche, per definire appunto l’obbligatorietà
del rispetto delle feriae. In un contesto, quasi certamente estrapolato
da un trattato di ius pontificium [?diritto pontificio?] di qualità eccellente,
il commentatore di Virgilio scrive che le
feriae sono da considerarsi a tutti gli effetti
operae ?attività umane? dovute agli Dèi (Feriae enim operae deorum creditae sunt); spiegando il nefas che inibisce i lavori agricoli durante le
feriae (feriis terram ferro tangi nefas est [?durante le festività è contrario alla
religione toccare la terra con il ferro?])
con la motivazione che feriae deorum causa instituuntur [?le festività sono istituite per gli Dèi?][30]. Orbene, proprio nel ricorso alla nozione
di opera, mi pare possa cogliersi l'esatto senso
giuridico degli obblighi gravanti sugli uomini
per il rispetto del tempo delle feriae. Tuttavia, al riguardo, non credo di poter
condividere la tesi formulata, più di quarant’anni
orsono, da Pierre Braun, in un suo saggio
dedicato ai “Tabous des ?feriae?”: lo studioso
francese ha sostenuto che i divieti imposti
nelle feriae determinerebbero l’instaurarsi di una relazione
tra uomini e divinità del tutto simile ?à
celle de l’affranchi et de son patron?[31]. Intorno a questi divieti i sacerdoti romani,
ed in particolare i pontefici, avevano elaborato
regole di comportamento piuttosto complesse
e minuziose, di cui proprio i pontefici tramandavano
la memoria e la dottrina nei libri del proprio collegio; come attesta, ancora
una volta, Servio Danielino nel commento
al verso 270 del primo libro delle Georgiche di Virgilio[32]. Sulla materia vi erano scrupoli e zone d’ombra
che richiedevano il costante conforto degli
esperti. Regnava, per esempio, una grande
incertezza sulle opere agricole consentite
durante i dies festi. Il tema era peraltro usuale fra gli antichi
scrittori di opere de agricoltura [?sull’agricoltura?]: se ne erano occupati
prima Catone il Censore[33] e più tardi Virgilio[34], infine se ne sarebbe occupato ancora Columella[35]; senza tuttavia pervenire ad una totale
identità di vedute. Per quanto, ormai, le
prescrizioni pontificali dovessero essere
improntate ad una pratica assai permissiva,
almeno fin dall’età di Quinto Mucio Scevola[36]; poiché, come insegnava il grande giurista
e pontefice massimo, durante le ferie poteva
essere portato a compimento tutto ciò quod praetermissum noceret [?ciò che sarebbe nocivo se fosse tralasciato?]. Macrobius, Saturnalia 1.16.11: Scaevola denique consultus, quid feriis agi
liceret, respondit: quod praetermissum noceret.
Quapropter, si bos in specum decidisset eumque
pater familias adhibitis operis liberasset,
non est visus ferias polluisse; nec ille
qui trabem tecti fractam fulciendo ab imminenti
vindicavit ruina [Macrobio, Saturnali 1.16.11: ?Scevola, interrogato su che cosa
fosse lecito fare nei giorni di festa, rispose:
ciò che sarebbe nocivo se fosse tralasciato.
Perciò, se un bue cadesse in una buca e
il padre di famiglia lo liberasse con l’impiego
di mano d’opera, non si ritiene che abbia
profanato i giorni festivi; e neppure chi,
puntellando una trave rotta del tetto, evita
il crollo imminente?]. Lo stesso Quinto Mucio Scevola, a cui si
fa risalire la prima teorizzazione della
theologia tripartita [?teologia tripartita?][37], era invece piuttosto rigoroso nell’escludere
la possibilità di espiare le violazioni
volontarie del “tempo degli Dèi”. Varro, De lingua Latina 6.30: Contrarii horum vocantur dies nefasti, per
quos dies nefas fari praetorem ‘do, dico,
addico’; itaque non potest agi: necesse
est aliquo <eorum> uti verbo, cum lege
qui< d> peragitur. Quod si tum imprudens id verbum emisit ac
quem manumisit, ille nihilo minus est liber,
sed vitio, ut magistratus vitio creatus nihilo
setius magistratus. Praetor qui tum fa[c]tus est, si imprudens
fecit, piaculari hostia facta piatur; si
prudens dixit, Quintus Mucius a[b]i[g]ebat
eum expiari ut impium non posse [Varrone, La lingua latina 6.30: ?I giorni contrari a questi si chiamano
nefasti, nei quali giorni non è lecito al
pretore dire ‘do, giudico, aggiudico’;
pertanto nessuno può intraprendere un’azione
legale, perché in ogni causa giudiziaria
è necessario usare una di quelle parole.
Che se (il pretore) pronunci una quelle parole
o liberi uno schiavo, questo è ugualmente
libero, ma con atto viziato, come un magistrato
eletto con vizio rimane pur sempre magistrato.
Un pretore che abbia preso una decisione
in questi giorni, se lo ha fatto involontariamente,
si libera della sua colpa col sacrificio
di una vittima espiatoria; se lo ha fatto
in maniera cosciente, Quinto Mucio affermava
che egli non potesse espiare in alcun modo,
come uno che avesse commesso un atto di empietà?][38]. Riferisce, al riguardo, M. Terenzio Varrone
che il pontefice massimo Quinto Mucio Scevola,
a proposito della violazione da parte del
pretore dei dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem ‘do,
dico, addico’, distingueva nettamente la posizione di
chi avesse violato il nefas fari involontariamente (imprudens), e dunque poteva espiare con un sacrificio,
da quella di colui che a tale obbligo era
venuto meno volontariamente (prudens), per il quale non vi era invece possibilità
di espiazione: si prudens dixit, Quintus Mucius aiebat eum
expiari ut impium non posse [?se lo ha fatto in maniera cosciente, Quinto
Mucio affermava che egli non potesse espiare
in alcun modo, come uno che avesse commesso
un atto di empietà?]. L’interpretatio (dispositiva, precettiva o rispondente)
dei pontefici, e degli altri sacerdoti, risultava
massimamente finalizzata a preservare nel
tempo la pax deorum, che si consolidava soprattutto attraverso
il rispetto più rigoroso delle prescrizioni
cultuali previste nei giorni riservati agli
Dèi. Era altresì necessaria da parte dei sacerdoti
un’intensa attività cautelare, in rapporto
al tempo e alla natura, al fine di evitare,
prevenire o rimuovere, ogni accadimento suscettibile
di innescare il verificarsi del nefas[39] (che l'opera della natura o l'azione degli
uomini tendevano sempre a provocare), con
la sua dirompente turbativa dei rapporti
tra uomini e divinità. Ma la scienza sacerdotale,
proprio mediante la riqualificazione religiosa
a favore degli Dèi di quote del tempo profano,
che in tal modo diventavano giorni di ferie
e di preghiera per tutta la comunità, si
mostrava quasi sempre in grado di exposcere pacem deum nella maniera più efficace. Titus Livius, Ab Urbe condita 3.5.14: Ut Romam reditum est, iustitium remissum
est; caelum visum est ardere plurimo igni,
portentaque alia aut obversata oculis aut
vanas exterritis ostentavere species. His
avertendis terroribus in triduum feriae indictae,
per quas omnia delubra pacem deum exposcentium
virorum mulierumque turba implebantur [Tito Livio, Storie 3.5.14: ?Appena gli eserciti ritornarono
a Roma, fu abolita la sospensione delle attività
civili; Il cielo si vide ardere per una grande
fiamma, e altri prodigi o apparvero realmente
alla vista o mostrarono vani fantasmi alle
menti impressionate. Per stornare questi
segni minacciosi furono indetti tre giorni
di ferie, durante i quali tutti i templi
si riempivano di una grande folla di uomini
e donne che invocavano la pace degli Dèi?][40]. In queste azioni rituali, la più antica
teologia sacerdotale e le norme dello ius sacrum concretizzavano il legame indissolubile
tra la vita del Popolo romano e la sua religio, finalizzata alla stabilizzazione della
pax deorum: cioè al permanere di una situazione di
amicizia nei rapporti tra uomini e Dèi.
Si possono ben comprendere le ragioni profonde
dell’interpretatio sacerdotale, che teorizzava la conservazione
della pax deorum come l’elemento basilare del sistema giuridico-religioso
romano, in quanto fondamento teologico di
tutti i riti. 4. Sacrifici. A) Il sacrificio nella ‘religione’
pontificale: sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio
La centralità dei sacrifici di esseri animati,
hostiae o victimae, per le pratiche cultuali dell’antica religione
politeista romana, e dunque per la conservazione
della pax deorum, risulta invero assai evidente in un notissimo
passo di Tito Livio (1.20.5-7), relativo
all’istituzione del sacerdozio pontificale
da parte del re Numa Pompilio. Titus Livius, Ab Urbe condita 1.20.5-7: Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium,
ex patribus legit eique sacra omnia exscripta
exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus
diebus, ad quae templa sacra fierent atque
unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera
quoque omnia publica privataque sacra pontificis
scitis subiecit, ut esset, quo consultum
plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo
patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur;
nec celestes modo caerimonias, sed iusta
quoque funebria placandosque manes ut idem
pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus
aliove quo visu missa susciperentur atque
curarentur [Tito Livio, Storie 1.20.5-7: ?Quindi (il re Numa Pompilio)
scelse fra i patrizi Numa Marcio, figlio
di Marcio, e a lui affidò la cura di tutte
le prescrizioni sacre, descritte e autenticate:
con quali vittime, in quali giorni, a quali
templi si dovessero compiere i riti e donde
si dovesse ricavare il denaro per le spese.
Sottopose all’autorità del pontefice anche
ogni altra materia delle prescrizioni sacre,
pubbliche e private, perché il popolo sapesse
a chi rivolgersi per consiglio, e non fosse
turbato in alcun modo il diritto divino per
l’inosservanza dei riti patri e per l’introduzione
di riti stranieri; il pontefice prescrivesse,
non solo le cerimonie dedicate agli Dèi,
ma anche le giuste onoranze funebri e il
modo di placare i Mani, e quali segni della
volontà divina mandati per mezzo di fulmini
o di qualche altra apparizione si dovessero
prendere in considerazione ed espiare?].
Riguardo al passo appena citato, mette conto sottolineare il fatto che nell’elenco
delle materie di competenze dei pontefici,
il cui ordine non può ritenersi certo casuale,
proprio le hostiae vengano collocate al primo posto; precedendo
rispettivamente dies, templa, pecunia, cetera sacra, funebria e prodigia. Peraltro le potenzialità classificatorie
e sistematiche insite nel testo liviano non
sono sfuggite alla parte più avvertita della
dottrina contemporanea, al cui interno coesistono
però posizioni assai diversificate: alcuni
studiosi hanno ritenuto determinante la tripartizione:
quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa (così, ad esempio, il grande storico francese
Auguste Bouché-Leclercq[41]); altri, come lo storico della religione
romana Nicola Turchi, propugnano una divisione
della materia in cinque parti: controllo
rituale, responsi sull'attività circa le
cose sacre e pubbliche, controllo sul culto
degli Dèi patri e sull'accettazione dei
culti stranieri, controllo sul diritto funerario,
espiazione e neutralizzazione di fulmini
e altri prodigi funesti[42]; altri ancora – è il caso del linguista
Emilio Peruzzi – ritengono di poter individuare anche il contenuto,
o almeno l’ordine di disposizione della
materia, dei primitivi libri pontificum proprio sulla base del citato passo di Tito
Livio, ?da cui traspare che la copia consegnata
al pontefice era divisa in sette capitoli?[43]. Bisogna ricordare, poi, che le ricerche del
Peruzzi hanno dimostrato in maniera convincente
la derivazione da documenti sacerdotali del
testo liviano; in esso si sarebbero conservati
elementi di autenticità assai risalenti,
come la formula onomastica del pontifex[44]. Del resto, appare abbastanza credibile che
la riforma religiosa di Numa Pompilio[45] abbia imposto l’esigenza di testi scritti,
senza il cui ausilio doveva essere ormai
quasi impossibile osservare la complessità
dei sacra e delle caerimoniae e la minuziosa regolamentazione dei sacrifici,
testimoniate a proposito della religiosità
di quell'epoca. Di alcune delle prescrizioni
rituali pompiliane abbiamo notizia nella
‘vita di Numa’ di Plutarco[46]: esse riguardavano l’obbligo di sacrificare
un numero dispari di vittime agli Dèi celesti
ed un numero pari a quelli inferi[47]; il divieto di libare agli Dèi con vino[48]; il divieto di sacrificare senza farina[49]; la necessità di pregare e adorare la divinità
compiendo un giro su sè stessi[50]; apprendiamo infine, da una testimonianza
di Arnobio, che gli antichi attribuivano
a Numa Pompilio la composizione degli indigitamenta[51], appellativi rituali delle divinità (nomina deorum et rationes ipsorum nominum [?i nomi degli Dèi e le ragioni teologiche
degli stessi nomi?])[52], raccolti in seguito dai sacerdoti in libris pontificalibus[53]. Alla luce di quanto si è detto, nel passo di Tito Livio deve considerarsi particolarmente affidabile
l’elenco, o per meglio dire l’ordine-gerarchia,
delle materie di competenze dei pontefici
(quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa
sacra fierent, atque unde in eos sumptus
pecunia erogaretur), poiché esso ricalcava l’ordine degli
antichissimi sacra omnia exscripta exsignataque[54] istitutivi del sacerdozio pontificale, ritenuti
dalla tradizione annalistica opera dello
stesso re Numa Pompilio. Infine, non va dimenticato
che secondo la tradizione antiquaria di Varrone,
questi libri di Numa Pompilio avevano costituito il nucleo
primitivo dei libri dei pontefici[55]. 5. Sacrifici. B) Vittime sacrificali tra teologia
e diritto
Torniamo, ora, agli aspetti giuridici e rituali
del sacrificio[56] e alla valenza teologica delle hostiae[57] per i rapporti tra uomini e Dèi. Voglio
subito precisare, che non è mio intendimento
proporre qui di seguito una trattazione compiuta
della materia: da un lato, non lo consentirebbe
lo spazio concesso a questo contributo; dall’altro,
bisogna pur convenire che sono validi ancora
oggi molti pregevoli studi del passato (penso in particolare, ad opere come quelle
di E. Lübbert[58], A. Bouché-Leclercq[59], C. Krause[60], C. Blecher[61]), mentre restano quasi insuperabili le sintesi
manualistiche di J. Marquardt[62] e G. Wissowa[63]. Il sacrificio (sacra facere), nella sua accezione più generale, si
presentava come un’azione rituale che permetteva
alle diverse aggregazioni comunitarie romane
di stabilire, per mezzo della vittima immolata,
forme di comunicazione con le divinità destinatarie
del sacrificio[64]; si può ben dire, usando le parole di Ileana
Chirassi, che il sacrificio era sentito dalla
religiosità romana principalmente come ?modalità di scambio tra due posizioni, due
dati che si fronteggiano dialetticamente
e dei quali uno viene a trovarsi in posizione
mancante, quindi bisognoso d’integrazione?[65]. A proposito delle forme di religiosità romana,
sarà bene ricordare che il vocabolo cultus è un derivato del verbo colere, utilizzato indifferentemente in riferimento
alla terra, agli uomini, agli Dèi; questo
significa che anche i rapporti con le divinità,
per produrre i frutti desiderati, necessitavano
di assidue cure e di particolari attenzioni.
L’uomo doveva impegnarsi in una incessante
attività cultuale, poiché solo così poteva
sperare di ricevere benefici sempre maggiori
dall’immenso potere degli Dèi; tuttavia,
come spiega con la consueta acutezza Robert
Turcan, nella concezione romana dei rapporti
tra l’umano e il divino le azioni cultuali
degli uomini (con particolare riguardo al
sacrificio) erano reputate indispensabili
per la stessa esistenza degli Dèi: ?Il faut les faire agir, comme on fait valoir
la Terre Mère. Mais les dieux ont aussi
besoin des hommes. Varron déclarait craindre
de les voir périr civium neglegentia, victimes de la négligence cultuelle des
citoyens… Pour profiter de leur puissance,
les Romains doivent entretenir celle-ci par
les sacrifices qui sont censés revigorer
les dieux?[66]. Teologia e ius divinum mostravano nei confronti del sacrificio
un atteggiamento bivalente: i sacerdoti romani,
da un lato, ritenevano che le azioni sacrificali
costituissero i riti più idonei per attrarre
la benevolenza divina sulle vicende umane,
volgendo in tal modo a beneficio degli uomini
l’immensa potenza degli Dèi; d’altro lato,
consideravano i sacrifici indispensabili
per la sopravvivenza delle stesse divinità,
le quali diventavano tanto più potenti,
quanto più numerose erano le vittime immolate
sui loro altari[67]. Di questa concezione romana del sacrificio,
costituisce una prova incontrovertibile l’uso
linguistico corrente del verbo mactare: come insegnano i linguisti[68], tale verbo, muovendo dal suo significato
originario di ?accrescere?, ?fare più grande?
(deriva infatti dalla stessa radice di magis), ha finito per acquisire il senso prevalente
di ?sacrificare?, ?immolare?: Servius, in Vergilii Aeneida 4.57: mactant verbum sacrorum, kat'eùfhmismòn dictum, ut adolere; nam ‘mactare’ proprie
est ‘magis augere [Servio, Commento all’Eneide di Virgilio 4.57: ?‘Mactant’ (uccidono) è parola specifica dei sacrifici,
detta per eufemismo come ‘adolere’ (bruciare), infatti ‘mactare’ (uccidere) è propriamente ‘accrescere
di più’?][69]. Nell’azione rituale del sacrificio, percepito
come vero e proprio nutrimento degli Dèi[70], si perfeziona in tutta la sua dimensione
bilaterale il rapporto di reciprocità insito
nella concezione romana di religio[71]. Certamente, aveva ben presente questa concezione
della religio M. Tullio Cicerone, quando scriveva nell’opera
De legibus [?sulle leggi?] che gli Dèi e gli uomini
appartengono alla medesima societas, alla medesima civitas[72] e che la loro associazione riposa nella
comunanza della legge: lege quoque consociati homines cum dis putandi
sumus [?dobbiamo credere gli uomini e gli Dèi
riuniti in una associazione fondata sulla
legge?][73]. La sapienza teologica e giuridica dei sacerdoti
romani aveva operato ab antiquo partizioni fondamentali in materia di sacrifici:
quibus hostiis immolandum quoique deo, cui
maioribus, cui lactentibus, cui maribus,
cui feminis [?quanto alla natura delle vittime che devono
essere immolate a ciascuna divinità: a chi
grandi, a chi lattanti, a chi maschi, a chi
femmine?][74]. Essi potevano consistere in offerte incruente
di prodotti della terra (libamina), oppure in sacrifici cruenti di esseri
animati (hostiae, victimae). Quanto al risultato che si voleva conseguire,
la pratica dei sacrifici cruenti era ritenuta
di gran lunga superiore alla semplice offerta
di libamina, in ragione del radicato convincimento che
il sangue delle vittime sacrificali, versato
nell’azione rituale, risultasse sommamente
gradito alle divinità (e ai defunti)[75]. Nello stesso tempo, al fine di assicurare
ai fedeli la piena conoscenza delle modalità
di celebrazione dei sacrifici, i sacerdoti
romani fissarono con estrema precisione sia
le regole rituali, sia le tipologie degli
animali sacrificabili alle diverse divinità;
in tal modo, diventava possibile per i cittadini
vincere ogni scrupolo religioso e associare
a ciascun Dio la vittima più idonea: victimae numinibus aut per similitudinem
aut per contrarietatem immolantur [?le vittime sono immolate agli Dèi o per
similitudine o per contrarietà?][76]. Si andarono elaborando classificazioni sempre
più rigorose degli animali da sacrificare,
pur nella generale tendenza alla semplificazione
delle tipologie delle vittime (genera hostiarum). Sul finire dell’età repubblicana, il
grande giurista C. Trebazio Testa[77], autore di un’opera intitolata de religionibus [?sulle religioni?], aveva teorizzato che
tali genera potessero ridursi sostanzialmente a due:
unum in quo voluntas dei per exta disquiritur,
alterum in quo sola anima deo sacratur [?uno in cui si ricerca il volere divino
mediante i visceri, l’altro in cui si consacra
al dio la sola anima?][78]. Venne così ad operarsi una distinzione sempre
più marcata tra hostiae e victimae, che però risultava ormai lontana dalle
motivazioni teologiche e giuridiche (ricordate
ancora in età tardo antica dal grammatico
Servio), per quanto proprio queste motivazioni
costituissero il fondamento di tale distinzione[79]. In genere, nella pratica religiosa corrente
col termine hostiae si designavano gli animali piccoli, quali
maiali, capre, pecore; mentre erano denominati
victimae tutti gli animali più grandi, soprattutto
tori e vacche[80]. I pontefici poi, nella classificazione delle
vittime, tenevano conto dell’età: si chiamavano
lactentes quando avevano un determinato numero di
giorni (cinque o dieci i porcellini, sette
gli agnelli e trenta i vitelli); erano invece
maiores o bidentes quando divenute adulte avevano messo la
doppia fila di denti; inoltre, gli animali
da sacrificare sovente venivano distinti
sulla base del sesso[81] e del colore, o anche dello scopo che si
voleva conseguire con il sacrificio[82]. Naturalmente, le vittime dei sacrifici
dovevano essere prive di difetti fisici (purae). Per questo, come leggiamo in un passo
di Macrobio, il quale cita letteralmente
le quaestiones pontificales [?questioni pontificali?] di Veranio[83], prima del sacrificio era necessario procedere
ad una verifica che dichiarasse tali vittime
electae [?scelte?], eximiae, egregiae [?separate dal gregge?] e quindi idonee
all’immolazione[84]. Nel caso di sacrifici particolarmente solenni,
il rituale prescriveva che si offrissero
insieme diverse specie di animali; il più
noto di questi sacrifici prendeva il nome
di suovetaurilia e consisteva nell’offerta alle divinità
di un maiale, di una pecora e di un toro.
I suovetaurilia, attestati anche negli inni vedici dell’antica
India, erano un antichissimo sacrificio risalente
alla “religione comune” dei popoli indoeuropei;
a Roma essi dovevano essere compiuti nelle
cerimonie lustrali o di purificazione: si
offrivano al dio Marte in Campo Marzio nel
corso della cerimonia di purificazione del
populus Romanus, che aveva luogo ogni cinque anni ad opera
dei censori (lustrum condere)[85]. Lo stesso sacrificio, peraltro, era celebrato
annualmente dal pater familias nella seconda parte del mese di maggio,
in occasione degli ambarvalia, cerimonia di purificazione dei campi descritta
da Catone, in cui ogni proprietario sacrificava
i tre animali condotti precedentemente in
processione intorno ai confini del fondo
familiare[86]. Non posso addentrarmi ulteriormente nel complesso
rituale romano del sacrificio, le cui regole
minuziose esigevano dal fedele grande attenzione
e notevole perizia; l’attività cautelare
dei sacerdoti romani fu pressoché incessante
in materia, si elaborarono perfino modi di
espiazione anticipata degli eventuali scelera determinati da omissioni involontarie del
sacrificante. A tale scopo, i sacerdoti prescrivevano
di immolare, il giorno precedente a quello
fissato per il compimento di sacrifici solenni,
una vittima espiatoria, chiamata appunto
praecidanea ?uccisa prima?, per sanare ogni infrazione
rituale involontaria che si sarebbe potuta
commettere durante lo svolgimento della cerimonia[87]. 6. Sacrifici. C) Sacrifici umani
Vorrei proporre un’ultima suggestione riguardo
ai sacrifici nella religione politeista romana.
è noto che i giuristi romani, sulla base dello
ius naturale, hanno teorizzato l’esistenza di istituti
giuridici comuni a tutti gli animalia[88]; si riteneva, dunque, che il sistema giuridico-religioso
romano fosse caratterizzato da una comunanza
di diritti tra (Dèi) uomini e animali, la
cui coerente traduzione nella sfera religiosa
permetteva di considerare quali possibili
vittime sacrificali anche gli stessi esseri
umani. Col progredire della storia di Roma, i sacrifici
umani divennero del tutto eccezionali: per
essi trovarono più frequente applicazione
sia il principio della sostituzione dell’uomo
con gli animali (vigente nelle antichissime
leges regiae, per il colpevole di omicidio involontario)[89], sia la regola in sacris simulata pro veris accipi, certamente elaborata dai sacerdoti in età
arcaica, per quanto attestata da una fonte
piuttosto tarda. Servius, in Vergilii Aeneida 2.116: Et sciendum in sacris simulata pro veris
accipi: unde cum de animalibus quae difficile
inveniuntur est sacrificandum, de pane vel
cera fiunt et pro veris accipiuntur [Servio, Commento all’Eneide di Virgilio 2.116: ?Bisogna sapere che nei sacrifici
le cose finte sono accettate per vere: così
quando si devono sacrificare degli animali
che si trovano difficilmente, si fanno con
il pane o con la cera e sono accettati per
veri?][90]. Tuttavia i sacrifici umani, nonostante il
Senato di Roma li avesse proibiti fin dal
97 a.C.[91], continuarono ad essere praticati eccezionalmente
fino all’età imperiale avanzata. Depone
in tal senso la testimonianza di Plinio il
Vecchio, il quale tratta di sacrifici umani
(in forma di sepoltura rituale) nel libro
ventottesimo della Naturalis historia, descrivendoli come cerimonie religiose
ancora praticate nel suo tempo (etiam nostra aetas vidit). Plinius, Naturalis historia 28.12: Boario vero in foro Graecum Graecamque defossos
aut aliarum gentium, cum quibus tum res esset,
etiam nostra aetas vidit. Cuius sacri precationem,
qua solet praeire XVvirum collegii magister,
si quis legat, profecto vim carminum fateatur,
omnia ea adprobantibus DCCCXXX annorum eventibus
[Plinio, Storia naturale 28.12: ?Anche la nostra generazione ha visto
sotterrare vivi nel Foro Boario un greco
e una greca o persone appartenenti ad altri
popoli con cui si era allora in guerra. Leggendo
la preghiera di questo sacrificio nella forma
abitualmente usata dal maestro del collegio
dei quindecemviri, si dovrà per forza ammettere
il potere di questi incantesimi, ampiamente
confermato d’altronde dagli eventi di 830
anni di storia?][92]. Altri episodi tramandati dalle tradizione
annalistica riguardano invece l’età repubblicana.
Titus Livius, Ab Urbe condita 22.57.4-6: Hoc nefas cum inter tot, ut fit, clades in
prodigium versum esset, decemviri libros
adire iussi sunt et Q. Fabius Pictor Delphos
ad oraculum missus est sciscitatum quibus
precibus suppliciisque deos possent placare
et quaenam futura finis tantis cladibus foret.
Interim ex fatalibus libris sacrificia aliquot
extraordinaria facta; inter quae Gallus et
Galla, Graecus et Graeca in foro bovario
sub terram vivi demissi sunt in locum saxo
consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime
Romano sacro, inbutum [Tito Livio, Storie 22.57.4-6: ?Poiché questo atto di empietà
in mezzo a tante disgrazie, come succede,
era stato interpretato come un prodigio,
fu comandato ai decemviri di consultare i
libri (sibillini) e Q. Fabio Pittore fu inviato
all’oracolo di Delfi per chiedere con quali
preghiere e supplicazioni (i Romani) potessero
placare gli Dèi e quale fine mai avrebbero
avuto tanto grandi sventure. Frattanto, secondo
le indicazioni dei libri fatali, furono compiuti
alcuni sacrifici straordinari; per esempio,
un uomo e una donna della Gallia, un uomo
e una donna della Grecia furono sepolti vivi
nel Foro Boario, in una buca chiusa intorno
da massi di pietra, che già in precedenza
era stata riempita di vittime umane, con
un rito per nulla affatto romano?][93]. Tito Livio riferisce la notizia che nel 216
a.C. i libri fatales, consultati dopo la battaglia di Canne,
ordinarono ai Romani sacrificia aliquot extraordinaria e che, sulla base di quelle prescrizioni,
furono sepolte vive nel Foro Boario una coppia
(maschio e femmina) di Celti e una coppia
di Greci[94]. Peraltro lo stesso sacrificio, come si
legge in Plutarco[95], era già stato celebrato nell’anno 228
a.C., prima della guerra contro gli Insubri.
Allo stesso modo, si potrebbe ritenere un
vero e proprio sacrificio espiatorio l’interramento
nel Foro Boario della Vestale incestuosa[96]; similmente, sono da considerare sacrifici
umani i riti della devotio[97] e della “primavera sacra”[98]. Infine, il ricordo di un antichissimo sacrificio
umano permane nel misterioso rito degli Argei,
che si celebrava il 14 o 15 maggio[99]: mentre sfugge quasi totalmente il significato
religioso del rito, risultano più chiare
le modalità della cerimonia, durante la
quale le Vestali, operando alla presenza
dei pontefici e dei magistrati, gettavano
nel Tevere dal Ponte Sublicio 27 fantocci
di paglia (il numero è indicato da Varrone),
certo in sostituzione delle vittime umane
effettivamente sacrificate nell’età più
antica alla divinità del fiume[100]. [1] Comunicazione presentata al VIII Colloquio
dei romanisti dell’Europa centro-orientale
e d’Italia ?Studio e insegnamento del diritto romano.
La persona nel sistema del diritto romano.
La difesa dei debitori? (Vladivostok 5-7 ottobre 2000), organizzato
dal Juridi1eskij Institut Dal’nevosto1nogo Gosudarstvennogo Universiteta (Istituto
Giuridico dell’Università Statale dell’Estremo
Oriente) in collaborazione con il Centro
per gli studi su Diritto romano e sistemi
giuridici del Consiglio Nazionale delle Ricerche
e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del
Diritto Romano. [2] R. Orestano, I fatti di normazione nell'esperienza romana
arcaica, Torino 1967, p.114. [3] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale
antico", Sassari 1991, pp. 83 ss. [4] R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in
Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939, p. 201. [5] Cfr. la qualifica di iudex atque arbiter rerum divinarum humanarumque [?giudice e arbitro delle cose divine e
umane?], certo antichissima, attribuita al
pontifex maximus nell'ordo sacerdotum [?ordine dei sacerdoti?]: Festus, De verborum significatu [Festo, Il significato delle parole] (ed. Lindsay), v. Ordo, pp. 198-200. Per l’arcaicità dell’ordo sacerdotum, vedi G. Dumézil, La religion romaine archa?que, 2eme éd., Paris 1974, p. 155 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it. di F. Jesi, Milano 1977, pp.
138 s.]. [6] Digesta Iustiniani 1.1.10.2 (Ulpianus libro primo regularum): Iuris prudentia est divinarum atque humanarum
rerum notitia, iusti atque iniusti scientia [Digesti di Giustiniano 1.1.10.2 (Ulpiano nel libro primo delle Regole): ?La giurisprudenza è la conoscenza delle
cose divine ed umane, la scienza del giusto
e dell’ingiusto?]. [7] Gaius, Institutiones 2.2 (= Digesta Iustiniani 1.8.1 pr.): Summa itaque rerum divisio in duos articulos
diducitur: nam aliae sunt divini iuris, aliae
umani [Gaio, Istituzioni 2.2: ?La divisione somma delle cose le riconduce
in due articolazioni: infatti le une sono
di diritto divino, le altre di diritto umano?].
Su questa divisio vedi F. Fabbrini, v. Res divini iuris, in Novissimo Digesto Italiano, XV, Torino 1968, pp. 510 ss., con ampia
rassegna della bibliografia precedente; brevemente
anche G. Grosso, Problemi sistematici del diritto romano.
Cose-Contratti, Torino 1974, pp. 22 s. Riguardo al significato
dell'espressione summa divisio, sempre in riferimento al giurista Gaio,
vedi invece F. Goria, Schiavi, sistematica delle persone e condizioni
economico-sociali nel principato, in AA.VV., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, pp. 339 ss. [8] Sui diversi significati di religio, cfr. H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans
la langue latine, Paris 1963, pp. 172 ss.; é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes,
2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, pp. 265 ss.; R. Muth, Von Wesen r?mischer religio, in Aufstieg und Niedergang der r?mischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 290 ss.; R. Schilling, Rites, cultes, diex de Rome, Paris 1979, pp. 30 ss.; H. Wagenvoort, Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980, pp. 223 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 423 ss. [9] Già il poeta Ennius [Ennio] aveva cantato,
in questo modo, l’antichissima fondazione
di Roma: Svetonius, Augustus 7 [Svetonio, Vita di Augusto 7]; nello stesso senso Titus Livius, Ab urbe condita [Tito Livio, Storie] 1.4.1. Più in generale, vedi A. Grandazzi, La fondation de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991. [10] Digesta Iustiniani [Digesti di Giustiniano] 1.2.2.7. Le implicazioni giuridiche e politiche
del concetto di civitas augescens sono state ben delineate da P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità
del sistema romano, Torino 1990, pp. xiv s. Sulla stessa linea interpretativa, vedi
ora M. P. Baccari, Cittadini popoli e comunione nella legislazione
dei secoli IV-VI, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto
Romano dell'Università di Sassari, 9] Torino
1996, pp. 47 ss. [11] Vergilius, Aeneis [Virgilio, Eneide] 1.275-279; cfr. Servius, in Vergilii Aeneida [Servio, Commento all’Eneide di Virgilio] 1.278. La connotazione religiosa del passo
è sottolineata da P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, p. 54; G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, p. 209; R. Turcan, Rome éternelle et les conceptions gréco-romains
de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Studi I], Napoli
1983, p. 16; F. Sini, Bellum nefandum, cit., pp. 73 ss. [12] Cicero, De natura deorum [Cicerone, La natura degli Dèi] 2.8. Cfr. De legibus [Le leggi] 1.60; 2.30; De haruspicum responsis [I responsi degli aruspici] 18. [13] Per il concetto di ?pace con gli Dèi?,
rinvio ad alcuni miei precedenti lavori:
F. Sini, Bellum nefandum, cit., pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura
precedente); Id., La negazione nel linguaggio precettivo dei
sacerdoti romani, in Il Linguaggio dei Giuristi Romani. Atti del
Convegno Internazionale di Studi, Lecce,
5-6 dicembre 1994, a cura di O. Bianco e S. Tafaro, Galatina
2000, pp. 176 ss. [14] Sull’opportunità di usare l’espressione
?sistema giuridico-religioso?, in luogo di
?ordinamento giuridico?, rinvio a P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss.; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso
romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der r?mischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 445
s. [15] Cicero, Pro Rabirio [Cicerone, Orazione in difesa di Rabirio] 5; Ovidius, Amores [Ovidio, Amori] 1.2.21; Titus Livius, Ab urbe condita [Tito Livio, Storie] 39.10.5. [16] M. Sordi, Pax deorum e la libertà religiosa nella storia di
Roma, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, p. 147. [17] Plautus, Poenulus 253: sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet
adesse? [Plauto, Il piccolo cartaginese 253: ?ci sono tutte le cose che occorrono
per propiziarci gli Dèi??]. [18] Lucretius, De rerum natura 5.1229-1230: non divom pacis votis adit, ac prece quaesit
/ ventorum pavidus paces animas secundas [Lucrezio, La natura 5.1229-1230: ?non ricorre con voti alla
benevolenza degli Dèi e nella preghiera
non chiede pavido tregua dai venti e brezze
benigne?]. [19] Vergilius, Aeneis 3.370: exorat pacem divom [Virgilio, Eneide 3.370: ?implora la pace degli Dèi?]. [20] Titus Livius, Ab Urbe condita 3.5.14: His avertendis terroribus in triduum feriae
indictae, per quas omnia delubra pacem deum
exposcentium virorum mulierumque turba implebantur [Tito Livio, Storie 3.5.14: ?Per stornare questi segni minacciosi
furono indetti tre giorni di ferie, durante
i quali tutti i templi si riempirono di una
grande folla di uomini e di donne che invocavano
la pace degli Dèi?]; cfr. anche 7.2.2; 42.2.3. [21] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, p. 50: ?Legalismo religioso è l'insieme delle regole
che insegnano a mantenere la pax deorum? [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, p. 225]. [22] B. W. Frier, 'Libri Annales pontificum Maximorum': the
Origins of the Annalistic Tradition, Roma 1979 [2a ed. Ann Arbor 1998]; M. Chassignet, L’annalistique romaine, I. Les annales des
pontifes et l’annalistique ancienne (fragments), Paris 1996. [23] C. Bailey, Phases in the religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn. 1972],
p. 76. [24] Digesta Iustiniani 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum
et privatum. Publicum ius est quod ad statum
rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum
utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia,
quaedam privatim. Publicum ius in sacris,
in sacerdotibus, in magistratibus consistit [Digesti di Giustiniano 1.1.1.2 (Ulpiano nel libro primo delle istituzioni): ?I temi di questo studio sono due, pubblico
e privato. Il diritto pubblico è quello
che riguarda lo stato della cosa <pubblica>
romana, il privato è quello che riguarda
l’utilità dei singoli: vi sono infatti
alcune cose di utilità pubblica, alcune
di utilità privata. Il diritto pubblico
consiste in ciò che è sacro, nei sacerdozi,
nelle magistrature?]. [25] P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito
di Polibio e di Catone), in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, p. 676. [26] Cicero, De legibus [Cicerone, Le leggi] 2.19 ss.; 3.6 ss. [27] F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 213-214. [28] Cfr. F. D'Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari 1986; Id., Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988; F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino (1992) 1995. [29] W. W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the
Republic. An Introduction to the Study of
the Religion of the Romans, 1899 [rist. London 1925]; P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, pp. 322 ss.; A. K. Michels, The Calendar of the Roman Republic, Princeton 1967; G. Dumézil, Fêtes romaines d’été et d’automne, suivi
de dix questions romaines, Paris 1975; D. P. Harmon, The Public Festival of Rome, in Aufstieg und Niedergang der r?mischen Welt, II.16.2, Berlin-New York 1978, pp. 1440
ss.; H. H. Scullard, Festivals and Ceremonies of the Roman Republic, London 1981, pp. 51 ss.; J. Rüpke, Kalender und ?ffentlichkeit. Die Geschichte der Repr?sentation und religi?sen
Qualifikation von Zeit in Rom, Berlin-New York 1995. [30] Servius Danielis, in Vergilii Georgica [Servio di Daniel, Commento alle Georgiche di Virgilio] 1.268. [31] P. Braun, Les tabous des ?feriae?, in L’Année Sociologique, 1959 [pubbl. 1960], pp. 49 ss. [32] Servius Danielis, in Vergilii Georgica [Servio di Daniel, Commento alle Georgiche di Virgilio] 1.270. Sul passo vedi G. Rohde, Die Kultsatzungen der r?mischen Pontifices, Berlin 1936, pp. 40 s.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 109 s. [33] Cato, De agri cultura [Catone, L’agricoltura] 4. [34] Vergilius, Georgica [Virgilio, Georgiche] 1.268-272. Ancora valide, su questi versi,
le riflessioni di W. W. Fowler, Roman Essays and Interpretations, Oxford 1920, pp. 79 ss. [35] Columella, De re rustica [L’agricoltura] 2.21. [36] G. Lepointe, Quintus Mucius Scaevola. I. Sa vie et son oeuvre juridique. Ses doctrines
sur le droit pontifical, Paris 1926, a cui rimando per la bibliografia
precedente; O. Behrends, Die Wissenschaftslehre im Zivilrect des Q.
Mucius Scaevola, in Nachrichten der Akademie der Wissenschaften
in G?ttingen (Philologisch-Historische Klasse), 1976, pp. 265 ss.; A. Schiavone, Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuridico
nella Roma repubblicana, 2a ed., Bari 1977; M. Talamanca, Costruzione giuridica e strutture sociali
fino a Quinto Mucio, in Aa.Vv., Società romana e produzione schiavistica.
3. Modelli etici, diritto e trasformazioni
sociali, Roma-Bari 1981, pp. 15 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics. A study
of Roman jurists in their political setting,
316-82 BC, München 1984, pp. 340 ss.; F. Bona, Cicerone e i libri iuris civilis di Quinto Mucio Scevola, in Aa.Vv., Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana.
Atti di un Seminario (Firenze, 27-28 maggio
1983), Milano 1985, pp. 205 ss. [37] Per quanto riguarda la theologia tripertita, vedi G. Lieberg, Die Theologia tripertita in Forschung und Bezeugung, in Aufstieg und Niedergang der r?mischen Welt, I.4, Berlin-New York 1973, pp. 63 ss. (a
cui rimando per la bibliografia precedente
al 1970); J. Pépin, Remarques sur les sources de la theologia tripertita de Varron, in Varron. Grammaire antique et stylistique latine.
Recueil offert à Jean Collart, Paris 1978, pp. 127 ss.; A. Dihle, Die Theologia tripertita bei Augustin, in Geschichte - Tradition - Reflexion. Festschrift für Martin Hengel zum 70. Geburtstag, II. Griechische und R?mische Religion, Tübingen 1996, pp. pp. 183 ss. [38] Nello stesso senso, Ovidius, Fasti [Ovidio, Fasti] 1.47-48; Gaius, Institutiones [Gaio, Istituzioni] 4, 29; cfr. inoltre Festus, De verborum significatu [Festo, Il significato delle parole], p. 162 L.; Macrobius, Saturnalia [Macrobio, Saturnali] 1.16.14; Isidorus Hispalensis, Etymologiae [Isidoro di Siviglia, Etimologie] 6.18.1. [39] Per la nozione di nefas, J. Paoli, Le monde juridique du paganisme romain. Introduction
à l'étude du domain interdit des dieux
dans le temps (nefas), in Revue Historique de Droit Fran?ais et étranger 23, 1945, pp. 1 ss.; H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans
la langue latine, cit., pp. 127 ss.; P. Cipriano, Fas e nefas, Roma 1978; F. Sini, Bellum nefandum, cit., pp. 83 ss. [40] Vedi anche Titus Livius, Ab urbe condita [Tito Livio, Storie] 3.7.6-8; 42.2.3-7. [41] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome. étude historique
sur les institution religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], pp. 60-61. [42] N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, p. 41. [43] E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna 1973, pp. 165 s.: A) caelestes caerimoniae, comprendente i sacra dei collegi sacerdotali maggiori e gli altri
sacra pubblici e privati, divise in cinque capitoli:
1 quibus hostiis, 2 quibus diebus, 3 ad quae templa, 4 unde in eos sumptus pecunia, 5 cetera publica privataque sacra; B) 6 iusta funebria et ad placandos manes; C) 7 prodigia fulminibus aliove quo visu missa. [44] E. Peruzzi, Le origini di Roma, II, cit., p. 162. Cfr. Id., Le origini di Roma, I. La famiglia, Firenze 1970, pp. 142 ss. [45] Fonti: Titus Livius, Ab urbe condita [Tito Livio, Storie] 1.19-20; Dionysius Halicarnassensis [Dionigi
d’Alicarnasso] 2.64-73; Plutarchus, Numa [Plutarco, Vita di Numa] 9-14. Fra gli studiosi sono da vedere:
F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della
religione primitiva di Roma, in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei, ser. VIII, vol. 5, 1950, pp. 553 ss.; E. M. Hooker, The Significance of Numa's Religious Reforms, in Numen 10, 1963, pp. 87 ss.; J. Martínez Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, pp. 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles 1985, in part. pp. 194 ss., 219
ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella 'Storia di Roma
arcaica' di Dionigi d'Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, pp. 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome primitive
d'après Denys d'Halicarnasse, in Pallas, 39, 1993, pp. 153 ss. [46] Plutarchus, Numa [Plutarco, Vita di Numa] 14.6-7. [47] Servius, in Vergilii Bucolica [Servio, Commento alle Bucoliche di Virgilio] 5.66 = P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, p. 13 fr. 56. Commenti al
testo: A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., p. 113; G. Rohde, Die Kultsatzungen der r?mischen Pontifices, cit., pp. 37 s.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., p. 109. Cfr. anche Servius Danielis,
in Vergilii Bucolica [Servio di Daniel, Commento alle Bucoliche di Virgilio] 8.75; Macrobius, Saturnalia [Macrobio, Saturnali] 1.13.5. [48] Plinius, Naturalis historia [Plinio, Storia naturale] 14.88. Su tale divieto, vedi G. Piccaluga, Numa e il vino, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 33, 1962, pp. 99 ss.; G. Dumézil, Fêtes romaines d'été et d'automne, cit., pp. 87 ss. [49] Plinius, Naturalis historia [Plinio, Storia naturale] 18.7; Servius Danielis, in Vergilii Bucolica [Servio di Daniel, Commento alle Bucoliche di Virgilio] 8.82. Sull’importanza del farro nella religione romana, vedi A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, 2a ed., Roma 1976, pp. 126 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario
festivo all'ordine cosmico, Milano 1988, p. 61. [50] Titus Livius, Ab urbe condita [Tito Livio, Storie] 5.21.16; Svetonius, Vitellius [Svetonio, Vita di Vitellio] 2. [51] Arnobius, Adversus nationes [Arnobio, Contro le genti pagane] 2.73.18. Sui nomina deorum che si invocavano negli indigitamenta: I. A. Ambrosch, über die Religionsbücher der R?mer, Bonn 1843; A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 24 ss.; J. Marquardt, R?mische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2a ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885
[rist. an. New York 1975], pp. 7 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, trad. francese di M. Brissaud, Paris
1889, pp. 10 ss.]; J. Bayet, Croyances et rites dans la Rome antique, Paris 1971, pp. 175 ss.; G. B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 45 ss.; A. Pastorino, La religione romana, Milano 1973, pp. 199 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archa?que, cit., pp. 50 ss.; R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992, pp. 78 ss. [52] Servius, in Vergilii Georgica [Servio, Commento alle Georgiche di Virgilio] 1.21. [53] Sui documenti dei pontefici: P. Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; Id., Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; W. Rowoldt, Librorum pontificiorum Romanorum de caeremoniis
sacrificiorum reliquiae, Halis Saxonum 1906; C. W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, K?benhavn 1929; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses
à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, pp. 1 ss.; G. B. Pighi, La religione romana, cit., pp. 41 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 17 ss.; J. A. North, The books of the pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine, Rome 1998, pp. 45 ss. [54] E. Peruzzi, Le origini di Roma, II, cit., p. 163: ?è impossibile dire cosa significhi propriamente
exsignatus nel passo liviano (munito di sigillo impresso
con un anello, accompagnato da una formula
di approvazione, da un explicit, ecc.), ma l’espressione exscripta exsignataque non lascia dubbio che il testo affidato
al pontefice era una copia, integrale o parziale,
autenticata dal rex, degli stessi libri latini “iuris pontificii” che si ritroveranno
nel 181 a.C., cioè un esemplare che Numa
aveva debitamente dichiarato conforme all’originale
o comunque pienamente valido?. [55] Cfr. Varro, in Festus, De verborum significatu [Varrone, in Festo, Il significato delle parole], v. Opima spolia, p. 204 L. Quanto al rapporto tra i sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio e i più antichi libri dei pontefici, vedi F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 160 s. [56] Sul sacrificio nella religione romana: N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 119 ss.; J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la
religion romaine, cit., pp. 129 ss.; K. Latte, R?mische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 209 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archa?que, cit., pp. 549 ss.; E. Kadletz, Animal sacrifice in Greek and Roman religion, Diss. Washington 1976, Univ. Microfilms Inter.,
Ann Arbor, Mich. 1983; Aa.Vv., Le sacrifice dans l’Antiquité [Entretiens sur l’Antiquité classique,
27], Genève 1981; C. Grottanelli - N.F. Parise (a cura di), Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari 1988; R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New York-K?benhavn-K?ln 1988, pp.
4 ss.; A.V. Siebert, Instrumenta sacra. Untersuchungen zu r?mischen Opfer-, Kult-
und Priesterger?ten, Berlin-New York 1999, pp. 11 ss. [57] Sulle forti implicazioni teologiche del
significato della parola, vedi Servius Danielis,
in Vergilii Aeneida [Servio di Daniel, Commento all’Eneide di Virgilio] 2.156. [58] E. Luebbertus, Commentationes pontificales, Berolini 1858, pp. 99 ss. [59] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 98 ss. [60] C. Krause, De Romanorum hostiis quaestiones selectae, Diss. Marpurgi 1894, pp. 9 ss.; Id., v. Hostia, in Real-Encyclop?die der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. V, Stuttgart 1931, coll. 236 ss. [61] C. Blecher, De extispicio capita tria, in Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten 2, 1903-1905 [Gissae 1905], pp. 171 ss. [62] J. Marquardt, R?mische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 170 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 205 ss.]. [63] G. Wissowa, Religion und Kultus der R?mer, 2a ed., München 1912, pp. 410 ss. [64] é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, p. 223. [65] I. Chirassi Colombo, v. Hostia, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 862. [66] R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p. 4. [67] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la
religion romaine, cit., p. 130. [68] é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2, cit., p. 225. [69] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 19 fr. 120. [70] Cfr. R. Turcan, Le sacrifice mithriaque: innovations de sens
et de modalités, in Le Sacrifice dans l'Antiquité, cit., p. 361. [71] Per R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p. 4, una simile reciprocità era
espressa anche dalla parola pietas. [72] Cfr., al riguardo, le suggestive riflessioni
di P. Catalano, ‘Una civitas communis deorum atque hominum’:
Cicerone tra ‘temperatio reipublicae’ e
rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996], pp. 723 ss. [73] Cicero, De legibus [Cicerone, Le leggi] 1.23. Su questo testo ciceroniano, K. M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen
und politischen Interpretation von Ciceros
Schrift de legibus, Wiesbaden 1983, pp. 135 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin de la République, Paris 1984, pp. 225 ss. [74] Cicero, De legibus [Cicerone, Le leggi] 2.29. Cfr. G. Wissowa, Religion und Kultus der R?mer, cit., p. 413; G. Rohde, Die Kultsatzungen der r?mischen Pontifices, cit., p. 169; K. Latte, R?mische Religionsgeschichte, cit., p. 210. [75] Servius Danielis, in Vergilii Aeneida [Servio di Daniel, Commento all’Eneide di Virgilio] 3.67. J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la
religion romaine, cit., p. 131: ?C’était le sang de la
victime qui (comme en presque toutes les
religions) passait pour le plus puissant
régénérateur des forces de vie: l’age
classique conservait encore des traces de
l’aspersion de la face de l’idole avec
ce sang consacré ou du renouvellement périodique
de la peinture rouge qui en restait le symbole?. [76] Servius, in Vergilii Georgica [Servio, Commento alle Georgiche di Virgilio] 2.380; cfr. in Vergilii Aeneida [Commento all’Eneide di Virgilio] 3.118. G. Dumézil, La religion romaine archa?que, cit., pp. 550-551. [77] Quanto alla figura e all’opera di questo
giurista, fra la dottrina più recente, vedi
M. Talamanca, Trebazio Testa fra retorica e diritto, in Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana.
Atti di un Seminario. Firenze 27-28 maggio
1983, a cura di G. G. Archi, Milano 1985, pp.
29 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman
jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate, München 1985, pp. 123 ss.; M. d’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato.
Primi studi su C. Trebazio Testa, Napoli 1990. [78] Macrobius, Saturnalia 3.5.1: Cum enim Trebatius libro primo de Religionibus
doceat hostiarum genera esse duo, unum in
quo voluntas dei per exta disquiritur, alterum
in quo sola anima deo sacratur, unde etiam
haruspices ‘animales’ has hostias vocant [Macrobio, Saturnali 3.5.1: ?Infatti Trebazio nel libro primo
della Religioni insegna che esistono due generi di vittime
sacrificali: uno in cui si ricerca il volere
divino mediante i visceri, l’altro in cui
si consacra al dio la sola anima, donde gli
aruspici chiamano queste vittime ‘animate’?]. [79] Servius, in Vergilii Aeneida [Servio, Commento all’Eneide di Virgilio] 1.334. [80] E. Luebbertus, Commentationes pontificales, cit., pp. 107 ss.; J. Marquardt, R?mische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 171 s. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 206 s.]; G. Wissowa, Religion und Kultus der R?mer, cit., p. 412; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 121 s. [81] Servius, in Vergilii Aeneida [Servio, Commento all’Eneide di Virgilio] 8.641. [82] Servius, in Vergilii Aeneida [Servio, Commento all’Eneide di Virgilio] 12.170. [83] Veranio Flacco (o Q. Veranio), giurista
di diritto sacro e antiquario dell’età
augustea, scrisse anche un’opera sugli auspici,
intitolata probabilmente Auspiciorum libri [Libri degli auspici]: così M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der r?mischen Literatur, I, 4a ed., München 1927 [rist. an. 1966],
p. 600. Più in generale, vedi E. A. Gordon, v. Veranius, in Real-Encyclop?die der classischen Altertumswissenschaft, VIII A1, Stuttgart 1955, col. 937. [84] Macrobius, Saturnalia 3.5.6: Eximii quoque in sacrificiis vocabulum non
poeticum ?p…qeton, sed sacerdotale nomen est. Veranius enim
in Pontificalibus quaestionibus docet eximias
dictas hostias quae ad sacrificium destinatae
eximantur e grege, vel quod eximia specie
quasi offerendae numinibus eligantur [Macrobio, Saturnali 3.5.6: ?Anche ‘esimi’, parola usato nei
sacrifici, non è epiteto poetico ma termine
sacerdotale. Insegna infatti Veranio, nelle
Questioni pontificali, che sono dette ‘esimie’ quelle vittime
che si esimono ovvero si tolgono dal gregge
in quanto destinate al sacrificio, oppure
perché si scelgono come degne di essere
offerte alle divinità per la loro esimia
bellezza?]. Sul testo vedi P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 19 fr. 113; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1, Lipsiae 1898 [rist. an. Roma 1964], p. 8 fr. 8; H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964],
p. 431 fr. 4. [85] Sul significato di questa cerimonia, cfr.
K. Latte, R?mische Religionsgeschichte, cit., p. 119; R. M. Ogilvie, Lustrum condere, in The Journal of Roman Studies 51, 1961, pp. 31 ss.; G. Piéri, L'histoire du cens jusqu’à la fin de la
République romaine, Paris 1968, pp. 77 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archa?que, cit., p. 241 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit., p. 210]. [86] Cato, De agri cultura [Catone, L’agricoltura] 141. [87] Aulus Gellius, Noctes Atticae 4.6.7: Eadem autem ratione verbi "praecidaneae"
quoque hostiae dicuntur, quae ante sacrificia
sollemnia pridie caeduntur [Aulo Gellio, Le notti attiche 4.6.7: ?Lo stesso criterio etimologico presiede
all’appellativo delle vittime “precidanee”,
che si uccidono il giorno prima dei solenni
sacrifici?]. [88] Digesta Iustiniani 1.1.1.3 (Ulpianus libro primo institutionum): Ius naturale est, quod natura omnia animalia
docuit: nam ius istud non humani generis
proprium, sed omnium animalium, quae in terra,
quae in mari nascuntur, avium quoque commune
est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio,
quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum
procreatio, hinc educatio: videmus etenim
cetera quoque animalia, feras etiam istius
iuris peritia censeri [Digesti di Giustiniano 1.1.1.3 (Ulpiano nel libro primo delle Istituzioni): ?Il diritto naturale è quello che la
natura ha insegnato a tutti gli animali:
infatti questo diritto non è proprio del
genere umano, ma è comune a tutti gli animali
che nascono in terra, in mare, ed anche agli
uccelli. Da qui deriva l’unione del maschio
e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio;
da qui la procreazione dei figli; da qui
l’educazione: vediamo infatti che pure tutti
gli altri animali, anche le fiere, sono valutati
in base alla perizia che abbiano in questo
diritto?]. [89] Servius Danielis, in Vergilii Bucolica 4.43: Sane in Numae legibus cautum est, ut, siquis
imprudens occidisset hominem, pro capite
occisi agnatis eius in contione offerret
arietem [Servio di Daniel, Commento alle Bucoliche di Virgilio 4.43: ?Nelle leggi del re Numa Pompilio
è prescritto che, se qualcuno uccidesse
per imprudenza un uomo, dovesse offrire un
ariete ai parenti dell’ucciso davanti al
popolo riunito in assemblea?]. C. G. Bruns, Fontes Iuris Romani Antiqui, 6a ed., Friburgi et Lipsiae 1893, p. 10
fr. 13; S. Riccobono, Fontes Iuris Romani Antejustiniani, Pars
prima, Leges, 2a ed., Florentiae 1941, p. 13 fr. 17.
Diversa ricostruzione del testo di Servio
nel bel libro di S. Tondo, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, pp. 89 ss. [90] Ampia discussione del testo, con puntuali
riferimenti agli aspetti fenomenici nel diritto
pontificio del principio generale ivi enunciato,
nel recente lavoro di E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano
dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, pp. 69 ss. Sul principio della sostituzione cfr. A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 98-99; più di recente G. Capdeville, Substitution de victimes dans les sacrifices
d’animaux à Rome, in Mélanges de l’école Fran?aise de Rome (Antiquité) 83, 1971, pp. 283 ss. [91] Plinius, Naturalis historia 30.12: Extant certe et apud Italas gentes vestigia eius in xii tabulis nostris aliisque argumentis, quae priore volumine exposui. dclvii demum anno Urbis Cn. Cornelio Lentulo P. Licinio Crasso cos. senatusconsultum factum est, ne homo immolaretur, palamque fit, in tempus illud sacra prodigiosa celebrata [Plinio, Storia naturale 30.12: ?Presso le popolazioni italiche esistono
certamente tracce di magia nelle XII Tavole
e in altri documenti che ho esposto in un
libro precedente. Fu soltanto nell’anno
657 di Roma (97 a.C.) che sotto il consolato
di Gneo Cornelio Lentulo e Publio Licinio
Crasso fu adottato un senatoconsulto che
proibiva d’immolare un uomo: ed è palese
che fino a quel tempo si celebravano sacrifici
mostruosi?]. [92] Per l’inquadramento del passo, vedi Th. K?ves-Zulauf, Reden und Schweigen. R?mische Religion bei
Plinius Maior, München 1972, p. 153 n. 159; quanto alla
fonte, per F. Münzer, Beitr?ge zur Quellenkritik der Naturgeschichte
des Plinius, Berlin 1897, p. 177, l’intero paragrafo
deriverebbe da M. Terenzio Varrone. [93] P. Fabre, Minime Romano sacro. Note sur un passage de Tite-Live et les sacrifices
humains dans la religion romaine, in Revue des Etudes Anciennes 42, 1940, pp. 419 ss. [94] Sull’origine e sulle finalità religiose
di questa e delle altre sepolture rituali
della religione romana, vedi: H. Diels, Sibyllinische Bl?tter, Berlin 1890, pp. 85 ss.; C. Cichorius, R?mische Studien. Historisches epigraphisches literargeschichtliches
aus vier Jahrhunderten Roms, Leipzig-Berlin 1922 [rist. an. Roma 1970], pp. 12 ss.; C. Bémont, Les enterrés vivants du Forum Boarium. Essai
d’interprétation, in Mélanges de l’école Fran?aise de Rome (Antiquité) 72, 1960, pp. 133 ss.; K. Latte, R?mische Religionsgeschichte, cit., pp. 256 ss.; S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II.1, Roma-Bari 1966, pp. 216 ss.; A. Fraschetti, Le sepolture rituali nel Foro Boario, in Le délit religieux dans la cité antique
(Table ronde, Rome, 6-7 avril 1978), Rome 1981, pp. 51 ss.; brevemente anche
F. Sini, Bellum nefandum, cit., pp. 67 s. [95] Plutarchus, Marcellus [Plutarco, Vita di Marcello] 3.6. Cfr. anche Orosius, Adversus paganos [Orosio, Contro i pagani] 4.13.3; Zonaras 8.19.9. [96] Cfr. in tal senso Claire Lovisi, Vestale, incestus et juridiction pontificale
sous la République romaine, in Mélanges de Ecole Fran?aise de Rome (Antiquité) 110, 1998, pp. 699 ss. [97] La solenne formula della devotio si legge in Titus Livius, Ab urbe condita [Tito Livio, Storie] 8.9.4-8. Per la ricostruzione ritmica del
testo, rinvio a G. B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958, pp. 60 ss. [98] T. Trincheri, La consacrazione di uomini in Roma. Studio
storico giuridico, Roma 1889, pp. 38 ss.; P. M. Martin, Contribution de Denys d’Halicarnasse à
la connaissance du ver sacrum, in Latomus 32, 1973, pp. 23 ss.; E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano 1991, pp. 300 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche.
Contributo alla storia della famiglia romana, 6a ed., Napoli 1999, pp. 108 ss. [99] D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario
festivo all'ordine cosmico, cit., pp. 168 ss. [100] Il Tevere era invocato sia nelle preghiere
degli auguri: Cicero, De natura deororum [Cicerone, La natura degli Dèi] 3.52; Servius Danielis, in Vergilii Aeneida [Servio di Daniel, Commento all’Eneide di Virgilio] 8.95; sia negli indigitamenta dei pontefici: Servius, in Vergilii Aeneida [Servio, Commento all’Eneide di Virgilio] 8.72; più in generale, cfr. J. Le Gall, Recherches sur le culte du Tibre, Paris 1953. |
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